martedì 22 aprile 2014

Civita di Bagnoregio (VT)

Civita di Bagnoregio è ubicata sulla cima di un colle (443 m s.l.m.) originatesi in corrispondenza dello spartiacque tra due bacini idrografici aventi direzione est-ovest. Il borgo è collegato al centro di Bagnoregio, da cui dipende amministrativamente, da un ponte pedonale al disopra di una stretta sella morfologica. L’abitato sembrerebbe aver conosciuto una notevole espansione dall’epoca romana sino al tardo medioevo, quando al nucleo abitato centrale, erano affiancate le contrade, poi scomparse, di Ponte (lato occidentale verso Bagnoregio) e Carcere (lato orientale). Le prime notevoli tracce d’insediamenti risalgono all’epoca etrusca come testimoniano le numerose tombe a camera scavate intorno alla rupe, in posizione dominante rispetto alla vallata circostante. Le informazioni degli storici e degli archeologi, e la qualità dei reperti rinvenuti, hanno permesso di stabilire che in epoca etrusca (VIII sec. a.C.) qui sorgeva un centro di rilevante importanza, dovuta al fatto di trovarsi su una via di comunicazione antichissima e frequentata, che univa la valle del Tevere al lago di Bolsena, e l’interno fino alla dorsale appenninica, formando un’intesa rete di rotte commerciali. Verso est l’espansione della città era limitata dalla configurazione morfologica del terreno, di conseguenza l’ampliamento urbanistico si determinò in direzione ovest, verso la contrada Rota, l’attuale Bagnoregio. Il tracciato urbanistico è tipicamente romano, con le strade principali che si incrociano ad angolo retto; il “decumanus” da est ad ovest, che ancora divide il borgo in due parti, e il “cardo”, l’asse nord-sud. Il punto d’incrocio, il “forum”, è la piazza principale del borgo, ora piazza del Duomo Vecchio. La notizia di una cattedra vescovile, a Civita, è accertata sin dal 600; si tratta di una delle più antiche del territorio a conferma dell’importanza del centro.
L’abitato di Civita ha costituito per molti secoli il centro del potere religioso e civile dell’antica Balneoregis. Sulla piazza, centro dell’agglomerato urbano e un tempo foro dell’impianto urbanistico romano all’incrocio fra cardo e decumano (che da est a ovest taglia il borgo in due parti) si affaccia la chiesa di S. Donato, polo d’aggregazione intorno a cui si sviluppa l’intero abitato. Sin dall’anno 600 il luogo fu sede vescovile, denotando con ciò una sicura rilevanza territoriale; tuttavia la più antica menzione della cattedrale, con l’attuale dedica, risale soltanto al 1211. Quanto alla cattedra episcopale, essa venne mantenuta nel tempio sino alla fine del XVII sec., allorché i danni provocati da un violento sisma, avvenuto nel 1695, fecero sì che essa venisse trasferita nel duomo di S. Nicola a Bagnoregio. Tracce di un primitivo impianto paleocristiano, o anche altomedioevale, non sono state ancora accertate; ma nell’edificio attuale è possibile agevolmente individuare caratteri e consistenza relativi ad una costruzione romanica di tipo basilicale a tre navate, triabsidata, priva di transetto; a sinistra della quale, in linea con la facciata, sorge un imponente campanile, ben riconoscibile come realizzazione del XII secolo ad opera di maestranze romano-lombarde, avendo caratteri stilistici rapportabili a costruzioni coeve dell’area tuscanica e viterbese. Alla parete sinistra dell’ex cattedrale è addossato un episcopio cinquecentesco, collegato, in passato, direttamente al presbiterio dell’edificio ecclesiastico. Da documenti d’archivio risulta che la chiesa, nella fase romanica, era dotata di un portico d’accesso, andato distrutto, e di cui ne sono testimonianza i rocchi di colonne in granito poste dinanzi al sagrato. L’esame della planimetria, l’analisi metrologica e l’accurata indagine sulle murature hanno evidenziato che nell’impianto planimetrico duecentesco a tre navi quella centrale, più alta, era illuminata da monofore a tutto sesto strombate, attualmente cieche, e separata dalle navatelle da una serie di archi a pieno centro, poggianti su colonne in marmo. Lo spazio era concluso da un presbiterio rialzato su cui si apriva l’abside centrale affiancata da due absidiole minori. La chiesa attuale palesa in maniera evidente le varie trasformazioni, aggiunte e demolizioni, subite nel corso dei secoli. L’edificio romanico, su iniziativa del vescovo Ferdinando di Castiglia, nei primi anni del Cinquecento, veniva profondamente trasformato dall’architetto Cola Matteuccio da Caprarola, attivo, all’epoca, anche nella fabbrica di S. Maria della Consolazione a Todi. Con la realizzazione del transetto voltato, diviso dall’ambiente antistante tramite tre archi, si veniva a creare una discontinuità linguistico-spaziale con il corpo anteriore della chiesa, che manteneva intatti i valori formali e costruttivi dell’impianto basilicale. Il Caprarola, al fine di realizzare una spazialità unitaria, meno frammentata in episodi autonomi, realizzava una volta a crociera di collegamento con la navata centrale. Il medesimo accorgimento sarebbe stato da lui successivamente ripreso nella sistemazione della zona presbiteriale del duomo di Foligno. Alla realizzazione del transetto, seguiva l’ampliamento dell’abside centrale e l’innalzamento delle navate laterali, con la chiusura delle monofore romaniche e delle due absidiole laterali, e l’inserimento di archi trasversali (dimensionati secondo il principio geometrico del terzo medio), cui corrispondono contrafforti esterni d’irrigidimento. Della chiesa duecentesca veniva conservata tutta la parte anteriore, l’intera parete sinistra e l’absidiola prossima ad essa, com’è palesato dall’omogeneità del paramento murario in conci di tufo di taglio regolare, ben squadrati, e disposti in filari collegati da un sottile strato di malta, che ne caratterizza la muratura. Ai lavori compiuti all’interno, seguiva la realizzazione della facciata che, preceduta da una gradonata, è articolata da due ordini sovrapposti. L’ordine inferiore, ionico, che nella sintassi e nella forma specifica dei capitelli sembra ricondurre a caratteri stilistici di derivazione bramantesca, incornicia, tra le paraste lisce, tre portali in pietra di disegno rinascimentale, di cui il centrale è terminato da un timpano curvilineo spezzato e i laterali sono sormontati da rosoni. L’ordine superiore, pseudo-dorico, è concluso nella parte mediana da un timpano raccordato alle ali da volute di collegamento. Superiormente, in asse con il portale centrale, si apre una finestra rettangolare in pietra lavorata, realizzata, come tutta la parte superiore della facciata nei primi anni del Settecento. L’11 giugno del 1695, infatti, un disastroso terremoto, con epicentro nel comune di Bagnoregio, danneggia gravemente l’intero abitato di Civita, compresa la chiesa di S. Donato, che con il Motu propio super universas ecclesias di papa Innocenzo XII, verrà privata, come si è già accennato, della cattedralità. Il cardinale Barbarigo, responsabile di ridurre la chiesa cattedrale in forma parrochialis, incarica l’architetto Giovanni Battista Origoni, operante a Montefiascone nella realizzazione del Seminario e nel consolidamento della cupola della chiesa di S. Margherita, di sovrintendere i lavori. L’Origoni sceglie di mantenere inalterato l’antico disegno sia in pianta che in alzato, limitandosi alla semplice ricostruzione delle parti crollate dell’edificio, lesionato gravemente in corrispondenza delle volte e del tetto con armatura lignea. Al fine di rendere più solidale e resistente l’intera struttura, vengono inserite, in corrispondenza degli archi trasversali e d’imposta delle volte a crociera, catene d’irrigidimento in ferro. La muratura in bozze di tufo con ricorsi e zeppe in laterizio, che caratterizza tutta la porzione alta dell’edificio, testimonia in maniera precisa l’esatta estensione e consistenza dell’intervento settecentesco. Sul finire del XVIII secolo veniva aggiunta, al corpo principale della chiesa la sacrestia nuova, posta in cornu evangeli e simmetrica rispetto all’antica sacrestia cinquecentesca. La chiesa veniva così ad assumere la conformazione conservata fino all’intervento di restauro iniziato nel 1967 che, nell’intento di riportare l’edificio all’aspetto e alle forme originarie duecentesche, ha profondamente alterato la percezione spaziale della chiesa. Infatti è stata attuata la sistematica demolizione degli altari delle navate minori e di parte dell’apparato decorativo elaborato nel corso dei secoli. Una nuova pavimentazione ha occultato le antiche camere sepolcrali con le relative lapidi tombali. Fra i vari tesori di arte sacra che la “vecchia” Civita conserva gelosamente nella sua antica chiesa già Cattedrale, quello che desta maggiore ammirazione per la bellezza artistica, l’espressione realistica delle sue forme e che, nel tempo stesso, suscita sentimenti di profonda devozione nell’animo dei fedeli e dei visitatori, è senza dubbio il SS. CROCIFISSO. Non sappiamo chi ne sia l’autore, ma è certo che quelle mani così abili nel perfetto lavoro di scalpello furono mosse dal cuore di un vero artista, grande e credente: la sua grande arte non poté essere che l’espressione della sua grande fede. Ammiriamo insieme questo meraviglioso capolavoro: è un bellissimo corpo umano di una simmetria perfetta e di grandezza naturale che mantiene e conserva, pur sotto i colpi e le ferite, tutta la delicata venustà delle forme. Il capo, dolcemente inclinato, coi capelli inanellati e fluenti sulle spalle e sul petto, ha la corona di spine, che rende più maestosa la fronte serena e divina. Nelle braccia distese si vedono ben rilevati i muscoli e le vene: le braccia sono dolcemente aperte e le gambe leggermente ritratte e piegate hanno i piedi trafitti che mostrano, sotto il peso del corpo, larghi, squarci e la pelle aggrinzita. La faccia insieme al corpo, è di un colore esangue, quasi chiaro, che dà 1’impressione che la Sacra Immagine, non ostante conti diversi secoli, sia stata dipinta di recente. Il Volto è qualche cosa di sovrumano, che indarno i disegni e le fotografie hanno tentato di riprodurre. Perfettamente rispondente all’espressione del volto è l’atteggiamento di tutta la persona: nelle sacre membra distese sulla croce si osservano le mani e i piedi crudelmente trafitti e di queste parti delicatissime di distinguono gli ossicini, le vene e i nervi tesi con infinito spasimo. La sporgenza del petto ansimante con la ferita del costato così profonda che quasi se ne vede sgorgare vivo sangue, il risalto dei muscoli e delle costole, l’abbandono di tutto il corpo ormai sfinito di forze, mostrato con singolare e sorprendente verità l’acutezza dei tormenti e l’ineffabile patire del Cristo sulla croce. Ma in quel capolavoro di estetica divina che è il volto, la più forte potenza di espressione è nello sguardo: nel contemplarlo si sente lo schianto crudele degli acerbi dolori dai quali fu compenetrato il Figlio di Dio morente per gli uomini e, nel tempo stesso, la sua perfetta rassegnazione alla volontà del Divin Padre. E sono gli occhi, è lo sguardo che dà alla Sacra Immagine quei tre aspetti caratteristici che formano lo stupore e insieme destano la meraviglia dei semplici fedeli e degli stessi artisti. I) CONTEMPLATA SUL DAVANTI NOI VEDIAMO GESÙ CROCIFISSO ANCORA VIVO: in quella fronte serena, in quel volto, che ritrae in modo meraviglioso le fattezze del più bello trai figli degli uomini, traspare un dolore ineffabile, paziente, rassegnato cui dà maggior risalto la corona di acute spine che, diadema di dolore, adorna il divino suo capo. Non è l’aspetto di un condannato qualsiasi, ma dell’Uomo-Dio che volontariamente compie il sacrificio della sua vita. II) VEDUTO DA SINISTRA IL NOSTRO CROCIFISSO È AGONIZZANTE: nell’occhio socchiuso si scorgono le smorte pupille; la bocca semiaperta lascia vedere i denti e la lingua alquanto rialzata; visibilmente riarsa dalla sete, quasi tremolante negli estremi aneliti dell’agonia. III) OSSERVATO DA DESTRA IL SACRO SIMULACRO CI OFFRE L’IMMAGINE DI CHI È IMMERSO NEL SONNO DELLA MORTE: le membra rilassate, gli occhi chiusi, il completo abbandono di tutto il corpo e il capo inclinato ci ricordano il “Tutto è consumato”, l’offerta completa della vita del Cristo per la redenzione dell’umanità peccatrice. EPOCA. Diamo ora un rapido cenno dell’epoca in cui collocare il nostro Crocifisso. È un fatto accertato nell’archeologia cristiana che le prime figure del Crocifisso cominciano ad apparire agli albori del sec. VI e che dal quel periodo fino al sec. XII erano generalmente vestiti di “colòbio” o lunga tunica senza maniche e confitti in croce con quattro chiodi (per esempio: i Crocifissi bizantini, il Volto Santo di Lucca, il Crocifisso in S. Chiara ad Assisi, ecc.); mentre il nostro Crocifisso ha il “perizoma” o fascia intorno alla vita, secondo il costume della Chiesa latina, è confitto in croce con tre chiodi, avendo i piedi sovrapposti secondo l’uso prevalso agli inizi del XII sec. Il nostro Crocifisso non è certamente di questo periodo, ma a giudizio di dotti artisti che in ogni tempo lo hanno visitato, è certamente da fissare al sec. XV, cioè agli inizi del millequattrocento e dai più è attribuito ad un artista di scuola donatelliana. D’altra parte non si può attribuire all’epoca rozza, per quanto ricca di sentimenti religiosi, del Medio Evo. I numerosi crocifissi più antichi dei nostri dintorni e attribuito a quel periodo sono per lo più scheletriti, contratti, contorti e rappresentano le vere concezioni paurose di artisti vissuti in epoca di ascetismo spirituale e di macerazione corporale. L’arte con cui fu scolpito il nostro indica chiaramente che non si può considerare per opera del primo Medio Evo perché è di una perfezione singolare, specialmente nella realistica espressione del volto e nel perfetto e ricercato studio delle parti anatomiche delle braccia, del petto e delle gambe, particolari artistici che, come abbiamo detto sopra, lo fanno attribuire alla scuola donatelliana.
In quella che fu la zona di Carcere, oggi crollata si può ammirare la cappellina di Carcere
La valle dei Calanchi è una formazione dovuta alle continue frane, che danno al paesaggio un aspetto fiabesco
IMMAGINI DI BAGNOREGIO
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